martes, 1 de septiembre de 2015

SILVIA ROSA [16.967] Poeta de Italia


Silvia Rosa

Silvia (Giovanna) Rosa nació en 1976 en Turín. Es licenciada en Educación, asistió a la Escuela de Cuentacuentos Holden en Turín. Escribe poesía y cuentos y participa en poesía slam y lecturas de poesía. Sus trabajos han encontrado su lugar en muchos sitios, blogs, revistas literarias y antologías. 

En 2010 hizo su debut con el pequeño libro de cuentos Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni) y la colección de poesía Di sole voci (LietoColle), finalista con una mención de honor en la quinta edición del Premio Literario Internacional de la Ciudad de Sassari.

En 2011 publicó el texto Corrispondenza(d)al limite [Fenomenologia di un inizio all'inverso] per la Clepsydra Edizioni  (con imágenes fotográficas de Giusy Calia), finalista del texto en la XXV edición de la Lorenzo Montaño, novela sección de prosa, y más tarde en 2012 de la colección de poemas SoloMinuscolaScrittura (La vita Felice).

Participó en 2011 para "Alfabetomorso", exposición colectiva de artes plásticas y poesía en la galería de arte EnPleinAir Pinerolo (Turín). Co-autora, junto con el fotógrafo Fabio Trisorio, del proyecto fotopoetico "metas", en el que ha firmado los textos.

Es editora del blog Migranze.net, portal de escritura interactiva. Organiza eventos literarios y exposiciones de artes visuales. Es miembro fundador y presidente de la 10100 ARTE Cultural.


Bibliografía: 

Poesía:

SoloMinuscolaScrittura, La vita Felice, 2012
Di sole voci,  LietoColle Editore, 2010 (II ediz. 2012)

Racconti:

Del suo essere un corpo, Montedit Edizioni, Collana Le schegge d'oro, 2010 - i libri dei premi

Ensayos:

Italiane d'Argentina. Storia e memorie di un secolo d'emigrazione al femminile (1860-1960), Ananke Edizioni, 2013 





Qué despilfarro

Qué despilfarro esta cotidianidad
vaciada de ternuras, desnuda
piedra que nos rebota, mirada
a un horizonte domesticado seco
(y yo que construía
geometrías golosas de palabras
por hacer menos pálido
el golpeteo mecánico
de la lengua contra los dientes,
a la manera de los chicos
probaba el juego repetido
-serio- de apretar
más, y siempre, como si
no fuese un continuo).
Qué derroche la muerte blanca muda
de un día idéntico al otro, de pequeñas
luciérnagas de felicidad intermitentes, astilladas
en la oscuridad de un tiempo tan disperso que
hasta la banalidad de la nada
tendría quizá un sabor menos mezquino.

Silvia Rosa (Turín, Italia, 1976)
Versión de Jorge Aulicino





Che sperpero questa quotidianità 
svuotata di tenerezze, nudo 
sasso che ci rimbalza contro, sguardo 
d'orizzonte addomesticato asciutto
(ed io che costruivo
geometrie golose di parole
per rendere meno scialbo
il battito meccanico
della lingua contro i denti,
al modo dei bambini
provavo il gioco ripetuto
- serio - di stringersi 
ancora e sempre come se 
non ci fosse un seguito)
che sperpero la morte bianca muta 
da un giorno all'altro identico di piccole 
lucciole di felicità intermittenti, schiacciate 
al buio di un tempo così distratto che 
persino la banalità del niente 
avrebbe forse un sapore meno gretto.






ORA TI DICO UNA COSA STRANA

Ora ti dico una cosa strana, una di quelle
che poi mi dici che sono matta:
voglio baciare tutte le donne
che hai amato, ma proprio tutte,
per ritrovare sulle loro labbra l’orma
delle tue, e stringere tra le mie braccia
tutte quelle che verranno, perché tu possa
ritrovarmi quando cercherai altrove
l’eco della mia pelle e le mie mani e la forma
che il tuo corpo ha dato al mio – esatta.

Voglio essere un uomo per possedere
tutte le donne del mondo, che non ne resti
nemmeno una che tu possa avere
senza sentirmi che ho toccato quel corpo,
voglio essere un uomo e voglio farti l’amore
e voglio farti la mia donna e voglio starti
così dentro da non ritrovarmi più
nel tuo corpo che è il mio,
voglio che nessuno ti sfiori, nessuno
nemmeno il vento.



LINGUA MADRE

siamo ai margini, in zolle di terra friabili
margini bordi che si assottigliano i fogli
sono vani bianchi di neve ché si precipita
io avevo i tuoi occhi io non ho mai avuto i tuoi occhi
tu mi ricordi che ai margini i bordi si sfaldano
sprofondano (di) parole che inghiottono il limite
siamo al limite, tesi sull’orlo di un niente
che a volte ha un nome uno spicchio amaro
di cielo che inghiotti, del vuoto che preme
io avevo le tue mani io non ho mai avuto le tue mani
sporche d’inchiostro e di pause lunari tra virgole
e punti di sospensione, è difficile trovare una piega
che accolga tra le parole nel bianco netto che esplode
l’ennesima solitudine, siamo alla fine vicini lontani
all’inizio la lingua madre ci tiene oltre un abisso e l’altro
ci ricompone ci rende segni piccini che accolgono albe
che attraversano indenni le ombre e tutti i silenzi
che inceppano il volto -con una nenia una preghiera
un gesto di voce materna- siamo ai margini della lingua
siamo intessuti di figure retoriche che ci schiantano
al suolo, siamo perduti tenuti stretti imbrigliati lontani
da ogni carezza che sanno i versi spuntati in punta di lingua
io avevo la tua certezza io non ho mai avuto la tua certezza
di ritrovarmi un giorno rannicchiati i pensieri in un foglio
come una culla candida che dondola lieve sul bordo
di un precipizio un altrove uno sguardo materno




MADRE

Madre, madre mia
che ricompongo il tuo volto
nel mio che non voglio vedere,
se tu fossi morta avrei almeno una tomba
un luogo di fiori in cui piangerti
che non sia il centro esatto di me
Madre, che ci parliamo nei sogni e mi sveglio
che vivo d’angoscia la tua assenza di sempre
-quante volte può ripetersi un addio?-
Madre, che mi hai costretta ad esserti
madre prima che figlia, che mi hai condannata
al silenzio di un ventre spoglio, di braccia svuotate,
di notti insonni che (non) parlano del tempo
in cui ero figlia amatissima, la tua
Madre, che sei partita infinite volte
e non torni e resti sempre e dovunque
quello che sfuggo che cerco che odio

che non ti perdono

Madre, madre mia
ti volto le spalle al saluto
ingoio le lacrime le nascondo le nego
dimentico il tuo abbraccio distante -troppo-
Madre che non ti perdono, perdonami tu
da lontano, in un sogno.



UN’ECCEZIONE

Regola numero uno:
mai scrivere poesie quando
non si sa bene cosa si vuol scrivere
e due: mai scrivere poesie mentre
si sta soffrendo o si gioisce intensamente,
aspettare qualche giorno o un mese
meglio e poi, col distacco necessario,
sublimare quanto più possibile
e tre: mai scrivere poesie
(questo l’ho appena scoperto) che parlino
di sé troppo – del proprio minuscolo ombelico –
infatti si consiglia a tal proposito di recarsi
in analisi per liberarsi di ogni residuo di intimo
dolore, e perché no, già che ci si trova,
anche di un po’ d’egocentrismo
(attenzione: al bando il particolarismo
ed ogni -ismo vario ed eventuale).

Pertanto, giacché così è stato decretato,
invece di scrivere l’ennesima poesia
sul vuoto l’abbandono l’infinito eccetera
eccetera, sotto-scrivo con slancio vivace
la tavola delle leggi – altrui –
e mi astengo dall’imbrattare con i miei
(presunti) versi il bianco candido
e ovattato di ciò che si dà il caso
possa (non) dirsi l’unica Poesia,
che (non) sta autentica (se non)
altrove inaccessibile per me e
inesistente per sua natura

un’eccezione.




Dicembre venticinque

Dicembre venticinque giorni
a ritroso
contavo i chicchi di neve la somma
di zucchero spolverato sulle strade
asfalto il peso esatto catrame
un mucchietto di gelo montato
in spuma di ore venticinque
una di attese da raccogliere spillare
tra le luci intermittenti che schizzano
gialline tutt'intorno malinconiche,
il mio dono la tua barba bianca
- bianca o era nera o non era? -
Babbo Papà Natale
ti ho scritto venticinque letterine  - anni
(non) ti amo infatti non ho smesso di aspettarti
e di cercarti e di credere che esisti
in ogni uomo che mi stringe un fiocco
rosso nella carne
- sono io il giocattolo a buon prezzo il dono -

quest'anno quest'inverno
questo numero di ghiaccio venticinque
aghi di pino a pungermi le palpebre
regalami l'incanto d'un abbraccio
una carezza un passaggio - tienimi -
sulle tue ginocchia
contami appesi alle dita della mano
venticinque desideri tutti uguali
- amami come sono
non sono stata buona forse, è vero

ma tu, Padre, tu nemmeno.





POESIE DI SILVIA ROSA TRATTE DA 
“SoloMinuscolaScrittura” (ED. LA VITA FELICE)



Sms #1

qui il sole non decolla, è un disco rotto che mi preme sul costato e schiocca note acide di noia. il mare si muove di continuo e ad averceli talloni duri che vanno al fondo riaffiorando lievi in superficie di meraviglia, ad avercelo legato stretto tra i capelli quel coraggio, che piega il capo di rinuncia, la saggezza antica che sa quando si smettono le attese, ché i morti non resuscitano – ma le attese come luccicano, un brillare che si accende fin negli angoli più asciutti della retina, e cola sale, e miele qualche volta -. aspetto che mi spuntino le branchie intorno al cuore, intanto che mastico il silenzio e mi pesa il lutto dei coralli che franano la pelle, snudando orme piccole di cielo, ques’estate la mia polpa più dolce resterà a consumarsi in cima a un albero, speriamo arrivi il vento, almeno, speriamo in un respiro di lontano, un tuffo che mi rianimi le vene dritto al cuore, di un’onda lunga l’eco





Sms #7

che bello accarezzare l’erba del mio giardino, sembrano Capelli di una creatura marina, asciugati di sale. le dita non scorrono in tanto candore lucente che profuma di terra e di vermi e della mia pelle impallidita contro il sole e il verde tenue che mi cresce sulla nuca – un germoglio di lallazioni – e fiorisce questa quiete di parole quando non ci sono e sono l’erba del mio giardino i miei capelli





Sms #36

la casa ha un respiro d’oggetti, che si sgonfia – un’agonia -, che si svuota di ricordi e si spegne in un rauco rimbombare la tua voce contro nude le pareti. sembra di veder morire un animale preistorico, che si accascia di stanza in stanza, si decompone, e nel vuoto di presenza viva, si rimpicciolisce – un’emorragia -, si apre fin nelle viscere. e tu, (ospite ospitato) al centro di questo strano corpo che fai a pezzi, non ti ritrovi più se non in te stesso, e scopri che ti basti, nudo per un istante, senza l’abbraccio consolante del tuo guscio. traslochi (dal)la tua pelle.





“Genealogia imperfetta”, La Vita Felice – 2014



IL LARICE

Il larice si spinge – in verticale –
oltre l’origine del verde
proviene dalla terra
da un inciampo di zolle molli
che si tengono strette
strette ai sassi e alle viole
a un grumo bianco di petali
che occhieggiano appena più in basso
non conoscere il nome
delle cose, non conoscere
non ricordare il nome
delle cose, è così vedi
che si smarrisce la distanza da qui
alla terra e l’origine è un silenzio
primordiale e dal nulla
è la provenienza, solo corpo senza storia
in mezzo ad altri corpi di foglie
e linfa, una voce verde che cede
consistenza al vento, domanda
dove andiamo? intanto che il giorno
si fa corteccia scura e poi più livida,
si resta immobili in questo andare
una definizione precisa di se stessi
il riassunto di secoli di vita
biascicata a memoria d’uomo,
è così vedi, esistere è un sussurro,
l’ombra rapida di una nuvola
che nasconde la luce caduta in sorte
al centro di un bosco d’intenzioni,
il larice ripetuto simile fino al fosso
al forse che scorre al lato del sentiero
e i passi seminati incespicano

nel vuoto non resta neppure un’orma.



MI COLANO GLI OCCHI

Mi colano gli occhi
in questa tazza di caffè amaro,
gli occhi con tutte le parole
che dicono occhi e tazza e caffè amaro,
con tutte e due le mani
che stringono la tazza e sfiorano le labbra
e vedono nel nero liquido di quest’alba
gli occhi galleggiare come due pesci morti
in una pozza d’acqua sporca,
e la bocca appesa al bordo della tazza
si affaccia al vuoto e inghiotte nero
alba mani e occhi, e quando inghiotte
gli occhi, tace.



ESISTERE

In principio era il dire
quel pronunciare incerto
e conclusivo il testo
verso dopo verso, era quello
che osservavi al microscopio
del tuo desiderio
desiderando cosa, se non
di possedere la matrice
viva la struttura fino
alle fondamenta del mio
essere per la parola tutta,
un poco più di niente il resto.
Poi è stato breve il precipitare
dall’impalpabile pensiero
incarnato appena
all’alfabeto delle mani,
che hai svelato piano piano
spingendo le parole via
come un vestito scivolato giù
alle caviglie, di cui liberarsi
per aderire infine al mio
silenzio esausto, e adesso
che di ogni mia parola puoi
riconoscere, esattamente,
il volto, adesso
che ogni pausa ha perso
il suo segreto tra le labbra
che mi cerchi a labbra aperte,
adesso cosa resta di quel desiderio,
se non la resa senza appello:
– sono trasparente –
ti ho consegnato l’origine
della mia nudità tra un incipit
ed una chiusa a effetto, sono
il verbo che si declina
vulnerabile e aspetta di tornare
ad essere la riscrittura di se stesso,
allo schiocco della tua lingua,
esistere.



TI HO GUARDATO GLI OCCHI

Ti ho guardato gli occhi, certo,
così simili ai miei
nelle curve delicate dei silenzi,
un taglio netto a tutto
quell’azzurro così feroce,
una promessa di nocciola
tra i resti di sorrisi appesi
ruga dopo ruga un po’ all’ingiù
per ricordarmi di ancorare
i miei pensieri a terra, cardine
e spazio di un respiro nuovo,
ma soprattutto il modo
con cui attraversi a passi fieri
l’idea stessa di un cammino,
hai le spalle dritte e sembri così quieto
che se ho temuto già una fine
è questa: non starti più vicino
mentre dai fiato buono
a quest’andare, e non importa dove,
ti ho guardato camminare e all’improvviso
non ho più avuto voglia
di voltarmi indietro.



PER LA BAMBINA COL VOLTO 
UGUALE DELLA NOTTE

I padri sono morti tutti, i maestri sono muti,
gli amanti sono briciole minuscole sul cammino
che porta al fosso ricamato di ortiche, spine
di rovi, sassi appuntiti acuti come un grido.
Il ventre si ricopre di lavanda, lento adagio,
e cresce madre di se stesso e mette gemme viola
per la bambina col volto uguale della notte
per il suo pianto asciutto inconsolabile.
La mano non cerca più carezze, ma scrive
scrive solo, scrive dei padri e dell’abbandono,
dei maestri con labbra d’oro che tradiscono
lezioni, strappando la radice di ogni gesto
piegando il vero al dolo d’illusioni, scrive degli amanti
che non sanno amare, nella lontananza issata
come una bandiera per dirsi liberi di andare
e tornare – col vento nuovo di ogni nuova assenza – ,
scrive del battito del cuore nascosto in una bara,
a decantare sangue e vita, sotto terra, e l’attesa
tenera di un’altra fioritura, nei seni infantili
all’improvviso la forma sicura di una donna.
(I padri sono tutti morti, le figlie camminano
senza talloni vanno avanti, vanno incontro
alla stagione dei ricordi, di quando erano piccole
così come piccoli aquiloni, le spalle dritte
– soldatini – ora che salvano gli sguardi candidi
da ogni delusione, ora che smettono di vegliare tombe
e corrono, corrono lievi, con il solo nome
nelle tasche vuote.)







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